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La globalizzazione in tavola

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Image 4 La globalizzazione non è certo una novità: nel corso della storia gli scambi hanno sempre prodotto notevoli miglioramenti nelle varietà dei cibi e nella salute delle popolazioni. Tuttavia i produttori locali, preoccupati di perdere i molti privilegi, costituiscono una lobby molto attiva nel diffondere un atteggiamento allarmistico verso la globalizzazione.

I gusti. Negli ultimi dieci anni il gusto degli italiani sembra essere variato abbastanza decisamente. Si impone la frutta esotica, tanto che per il consumo delle ananas che raddoppia si deve registrare il dimezzamento di quello delle pesche, con le banane che sono addirittura diventate il terzo frutto più consumato dagli italiani dopo mele e arance. E nonostante l’Italia sia il primo produttore di frutta e verdura in Europa, la frutta straniera rappresenta oggi ben il 15% di quella consumata. Ad attirare il consumatore è in particolare il fatto che questi prodotti arrivino spesso fuori stagione, tanto che negli ultimi dieci anni si registrano vere e proprie impennate in alcune importazioni: i mirtilli dall’Argentina ad esempio sono in crescita del 560%, le ciliegie del Cile schizzano a +122% e l’uva del Sudafrica aumenta del 50%.

Le abitudini. Un aumento abbastanza considerevole si registra anche nel consumo di cibi etnici, per quanto, nonostante la rapida diffusione degli esercizi commerciali che li offrono, solo il 7% degli italiani dichiara di frequentare molto spesso un take away straniero e il 5% un ristorante straniero. Dal 2000 ad oggi risultano praticamente raddoppiati i ristoranti etnici, e le vendite di prodotti etnici al supermercato hanno registrato una crescita ancora maggiore. Permane, comunque, in questo campo particolare, un certo scetticismo da parte di uno “zoccolo duro” di italiani, con quattro italiani su dieci che non hanno ancora mai messo piede in un ristorante straniero (41%) o acquistato per strada kebab, falafel, involtini primavera o sushi da portare via (38%).

La globalizzazione nascosta. Quando ci sediamo davanti a una pizza fumante al pomodoro ci sentiamo orgogliosi di questo prodotto tradizionale, eppure a ben guardare dentro il nostro piatto troviamo un vero caleidoscopio di ingredienti, provenienti anche da molto lontano. Stando ai dati Coldiretti infatti, nella metà delle 25.000 pizzerie nazionali gli ingredienti sono tutt’altro che nazionali. E così la mozzarella è sostituita con cagliate provenienti soprattutto dall'est dell’Europa, l’olio di oliva tunisino e spagnolo sostituisce quello italiano e la farina canadese o ucraina sostituisce quella ottenuta dal grano nazionale. Si salverà almeno il pomodoro? Anche quello in molti casi proviene dalla Cina, tanto che le importazioni di concentrato di pomodoro sono aumentate in dieci anni del 272%, con un quantitativo stimato per il 2010 di 100 milioni di chili.

E nella spesa degli italiani, secondo i dati diffusi dalla Cia (Confederazione italiana agricoltori), ogni anno finiscono prodotti stranieri, falsi Made in Italy, prodotti clandestini e anche pericolosi per un totale di 60 miliardi di euro, con quattro prodotti agroalimentari su dieci realizzati con materia prima estera e uno su tre che risulta essere un vero e proprio “tarocco”. Prosciutti, formaggi, mozzarelle, pasta, latte o carne ovina, tutti in diverse percentuali risentono di questa invasione nascosta di materie prime straniere. “Quello che è più grave” – afferma la Cia – “è che arrivano prodotti alimentari di scadente qualità e soprattutto non sicuri sotto l’aspetto della salubrità. Ci troviamo a fronteggiare una vera invasione di alimenti e prodotti agricoli che, poi, grazie all’incessante opera delle forze dell’ordine, in tantissimi casi vengono sequestrati. Però, molti finiscono sulle nostre tavole, anche a causa della crisi che spinge i consumatori ad acquistare prodotti a basso costo e di dubbia provenienza”.

Quello che ci si augura, è che presto si intraprenda una “politica commerciale che fissi obiettivi e priorità oggi non ancora evidenti in Italia”, per giungere ad una visione sistemica dell’economia agroalimentare italiana di qualità. Mettendo al centro la trasparenza, ovvero l’esigenza di dotare tutti i prodotti di un’etichetta chiara, con l’obbligo dell’indicazione d’origine.

Francesco Benincasa - La Stampa

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